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Introduzione
“Vi era anticamente una capacità di spensieratezza e di giocosità che è stata in buona misura soffocata dal culto dell’efficienza. L’uomo moderno pensa che tutto deve essere fatto in vista di qualcos’altro e non come fine a se stesso”
(B. Russell, Elogio dell’ozio, Longanesi, Milano, 2004)
Quando diciamo: “Oggi non ho fatto niente”. Come risuona in noi questa frase?Schierarsi in difesa dell’ozio oggi, in una società che osanna l’iperproduzione, corre diversi rischi di mal interpretazione e di tensioni. L’ozio e il riposo sono spesso associati a giudizi di basso valore, e da questi ne consegue il senso di colpa nel prenderci tempo per coltivare spazi vuoti, nel dedicarci al semplice vivere. Dedicarvisi non è semplice in un mondo che fonda i suoi principi su un’etica del profitto, e che conferisce un vero senso al tempo solo se economicamente produttivo. Non è però sempre stato così, anzi! Questa concezione è situata storicamente e ripercorrere le sue evoluzioni ci permetterà di capire come recuperare un tempo della vita che sia davvero più sostenibile.
Esploriamo insieme questa de-costruzione? 💖
Iniziamo da qualche domanda: come normalizzare nel quotidiano quegli spazi vuoti necessari alla Vita, quelli che ormai è abitudine riempire forzatamente con tempi di profitto o di intrattenimento, quando i valori stessi della nostra società si fondano su lavoro e iper-produttività? E hai mai pensato che il Primo Articolo della Costituzione Italiana fonda l’identità della Repubblica proprio sul lavoro?
É sicuramente un aspetto che dovrebbe spingere a riflettere.
Dobbiamo armarci di una buona dose di spirito critico e renderci consapevoli di quanto sia importante de-costruire una cultura che ha le sembianze di una piramide alla cui vetta del successo arriva solo chi è stato rapido, efficace, funzionale, produttivo. Insomma, chi se l'è meritato.
Ma cosa ne rimane di noi in mezzo a tutta questa funzionalità e iperproduttività?
Nel trambusto di quest’accelerazione dei tempi umani che sembra condurci sempre di più verso un’alienazione dei nostri tempi interiori, e non solo?
I fondatori di Tlon Andrea Colamedici e Maura Gancitano hanno preso parola in un ciclo di conferenze (trovi il loro intervento a fondo pagina), e ascoltandoli abbiamo trovato il motivo della scelta di quest’apologia: oziare, innanzitutto, è una forma di diserzione. E perché è così importante disertare? Perché attraverso quest’azione segnaliamo alla comunità attorno a noi che c’è qualcosa che non va, che la direzione presa sta causando danni. Cerchiamo di addentrarci più in profondità . 🌊
L'Ozio… prima
Trovi qualcosa in comune tra le parole “ozio” e “negozio”? Noi siamo rimaste basite dall’apprendere la radice etimologica (e concettuale) del negozio (nec otium) in quanto negazione dell’otium.Se nell’epoca moderna e contemporanea l’ozio è ciò che si contrappone al lavoro, nel mondo greco e romano era il lavoro ad essere contrapposto all’ozio: l’otium rappresentava infatti la quiete, la calma, il riposo dagli affari, un’attività diversa dal negotium. Nell'antichità dunque, l’ozio non era concepito come tempo sprecato. Filosofi come Seneca hanno speculato a lungo su questo concetto, sostenendo che l'ozio, lontano dall'essere un semplice riposo, fosse un’attitudine meditativa dell’esistenza.
Non è però tutto oro quel che luccica ed è importante contestualizzare questa concezione di ozio nella vita antica.
La distinzione tra otium e negotium era dedicata unicamente a chi disponeva del privilegio di poter scegliere se occuparsi degli affari o della politica, oppure della realizzazione della virtù intellettuale: le classi agiate. Non erano di certo schiavi, artigiani o contadini a poter beneficiare di questo tempo, impegnati invece nel labor, l’attività lavorativa fisica. Così ad essi era affidato il peso del lavoro manuale, lasciando ad una piccola fetta della comunità la possibilità di dedicarsi alle attività del pensiero. Forse nasce proprio qui l’idea che attività come la filosofia o la politica, più generalmente etichettate come “intellettuali”, siano accessibili solo a chi dispone della possibilità di dedicarvici tempo, e non a chi deve necessariamente consegnare gran parte della sua vita ad attività che permettono un sostentamento materiale.
Trovate anche voi qualche analogia con ciò che accade oggi?
Proprio su questo punto prendiamo le distanze dal modello antico, osservando ciò che ci può insegnare, ma con lo sguardo oltre l’orizzonte che pre-destina l’ozio e il riposo a chi proviene da una categoria socio-economica privilegiata. Questo sguardo vorremmo posarlo su un mondo in cui chi si riposa non lo fa causando come compensazione l’eccessivo lavoro a carico di qualcun altro (che sarebbe sfruttamento, ricordiamolo). Proviamo dunque a parlare di ozio non come una virtù (secondo gli antichi) o un vizio (secondo i moderni), ma in modo dissidente: come un diritto.
L’Ozio oggi: Una Prospettiva Invertita
Con la rivoluzione industriale e il sorgere del capitalismo, la percezione dell'ozio subì un cambiamento drastico. L'ozio cominciò ad essere visto sotto una luce negativa, spesso associato alla pigrizia, ad un lusso vizioso in quanto tempo sottratto al lavoro, una deviazione dalla produttività e dall'efficienza. Una visione che ci siamo portati appresso tuttora, e fa da cardine nella nostra società occidentalizzata, anche in questo preciso momento storico.
Il riposo è vissuto quasi come una colpa da espiare, quella cosa di cui tutti avremmo bisogno ma che ci è in qualche modo proibito desiderare. Ogni momento di riposo è un momento perso, è un peccato. Se desideri riposare, forse devi fare i conti con quella nozione elementare del “ lavoro che nobilita l’uomo”, facendo leva sulla percezione così interiorizzata da apparirci del tutto normale: essere valorizzati meramente in funzione della nostra “utilità sociale”. La risposta alla domanda: “che lavoro fai” colloca l’individuo in una precisa categoria di serietà o affidabilità o anche rispettabilità all’interno dei rapporti interpersonali, specie se il lavoro svolto è percezionalmente proporzionale all’impegno e al tempo che ci vuole per tale mestiere.
Ne consegue una visione distorta del riposo, concependolo non come degno di esistere a prescindere, in quanto tempo necessario, fondamentale e rispettato, ma come negazione, come assenza dell’attività produttiva. Oppure la visione del riposo che esiste solo in funzione di una maggiore produttività a seguire.
Facciamo caso semplicemente al linguaggio del nostro quotidiano. Quando ci chiediamo come stiamo, c’è una risposta ricorrente che dovrebbe preoccuparci, ma che invece lodiamo: “bene, stanco/a”. Se una persona ci risponde così, per bias percepiamo che abbia attinto al suo dovere, che sia stanca perché abbastanza efficiente. Oppure pensiamo al tanto sdoganato “power nap”: mi riposo per ricaricarmi, per riprendere le energie che mi servono per continuare a mantenere la mia efficienza. Il riposarsi non funzionale al ritornare sul pezzo, possiamo dire davvero di sapere cosa sia?
Stiamo rinunciando da decenni ai ritmi biologici in favore dei ritmi accelerati della produzione, ed è il momento di capirne l’intrinseca problematicità.
L’etica del lavoro ha preso tutto l’assetto valoriale del modo in cui pensiamo all’agire, ne consegue che per conferirle un vero senso si debba riempire il nostro tempo quanto più possibile di attività lavorative, che tanto ci rendono soggetti degni agli occhi della società. E quando non lavoriamo? Entra in scena l’intrattenimento, che a prima vista potrebbe confondersi nella nostra percezione come un sano momento di ozio, ma con un’ulteriore analisi, non è proprio così. Nell’attuale assetto capitalista l’intrattenimento tende a occupare “il resto del tempo” rispetto a quello consacrato al lavoro, ma è un “resto” strategico, in quanto esso stesso è un prodotto e ci spinge all’ulteriore consumo. L’equazione è perfetta: c’è un “tempo primario” per produrre e guadagnare, e un “resto del tempo” per consumare il prodotto con i guadagni. Il concetto di “tempo libero” viene perciò ridotto ad un tempo consumistico all’interno di una vita consumata in corsa, con traguardi previsti, senza intervalli, senza spazi di contemplazione e forse con non tutto il libero arbitrio che crediamo di avere.
Per rendere possibile la riappropriazione del proprio tempo è vitale scardinare un concetto tremendamente radicato nella nostra società: che il lavoro sia sacro. Bisogna evadere da questa glorificazione per mettere al centro attività che ci realizzino in quanto individui, e non come massa; un tempo che si riempia qualitativamente, ma che si educhi a stare fuori dalle categorie della produzione. Un tempo libero dall’accelerazione, dalla nozione stessa di crescita come un aumento di qualcosa, un “di più” che deve portarti da qualche parte; pensare ad una crescita orizzontale, non verticale, con il “semplice” fine di Vivere la nostra vita.
La filosofia di Bertrand Russell già negli anni ‘30 si allinea per combattere “l’idea di lavoro”, ipotizzando un reddito di base universale per tutti, in modo da liberare le classi più povere dall’emergenza di lavorare esclusivamente per necessità, accettando condizioni talvolta disumane. L’idea stessa che i poveri potessero avere del tempo libero fu inconcepibile per i ricchi; ma che se ne faranno mai?
Più tardi nel 20esimo secolo il sociologo Domenico De Masi, con il suo concetto di "ozio creativo", suggerisce che l'ozio può essere un'opportunità per l'innovazione e lo sviluppo personale. La relazione tra ozio e creatività è una storia d’amore bellissima, e standoci molto a cuore vorremmo prendere il giusto tempo e spazio per parlartene, non in questo momento, ma più avanti ✨
Ripartiamo dal Tempo: Elogio della Lentezza.
Quale sarebbe dunque una pratica rivoluzionaria per poterci riappropriare di questo tempo che già sembra stato confezionato per noi? Come riconoscere l’autenticità di un tempo che nasce da dentro, che non risponde all’immediatezza richiesta da una società accelerata? La nostra proposta è di educarci ad una dimensione di spazio-tempo oggi non valorizzata: la lentezza.
Può sembrare complesso, in una società moderna che ha naturalizzato la velocità come norma sociale prevalente: chi è veloce vince e guadagna, chi va lento perde e rimane indietro. Ma pensiamo mai all’incredibile opportunità che invece offrirebbe “rimanere indietro”, prendendosi il tempo per rallentare, o fermarsi?
Sì, può essere traumatico in un mondo come il nostro, fermarsi. Può risultare illogico, assurdo, i nostri doveri ci guarderebbero stupiti. Ma non si tratta di un fermarsi sterile; è il momento più fecondo per maturare un tempo dell’agire davvero consapevole. Il vuoto che questa stasi implica inizialmente ci fa male, ci sembra noioso, insensato, inutile, come se stessimo buttando via la vita. Quanta Vita invece stiamo vivendo quando prendiamo coscienza, quando lentamente ci prendiamo il tempo per conferire nitidezza a tutte quelle sfocature che la rapidità ha causato.
Ci sfugge uno strumento meraviglioso che si trova esattamente all’interno della parola Lentezza.
Osservala davvero, cosa vedi? 🔎
Proprio lei, una lente.
A cosa serve?
Ci fa vedere le cose che noi da soli/e non riusciremmo a vedere.
Facciamo camminare le nostre vite velocemente, e alla velocità interessa proprio portarci a destinazione nel più breve tempo possibile. Niente di male, se è questo l’obiettivo. Ma se ci dessimo la possibilità di aprirci alla lentezza? Correremmo forse il rischio che la destinazione cambi, dal momento in cui prendiamo tempo per vedere cosa incontriamo durante il cammino. Potrebbe causare del dolore, una deviazione, ma forse più allineata con il nostro Essere. Si tratta di un bivio potente, che ci spinge ad una messa in questione di ciò che era prefissato, e sappiamo non essere semplice. Se questa difficoltà però è volta alla genuinità del nostro Fare-Essere, possiamo sentire che è la scelta giusta.
In contrapposizione al rumore della società accelerata e che non lascia respiro alla riflessione e alla stasi necessarie, vogliamo ritrovare lo spazio vuoto, lento e fermo, dove si può creare ascolto per le proprie autentiche verità.
Milan Kundera ci ha regalato un testo infinito che si intitola proprio “La Lentezza”. In un passaggio cita un uomo che camminando per strada cerca di ricordare qualcosa che gli sfugge; cosa fa dunque? Rallenta istintivamente il passo. “C’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio”, scrive l’autore. Questo passo ci risuona proprio perché pensiamo che ci sia un legame segreto fra lentezza e consapevolezza, tra velocità e torpore. Potrà sembrarci erroneamente di essere più svegli andando veloce, ma ci sbagliamo: siamo intorpiditi. La lentezza, il riposo, la noia, il niente, sono occasioni di risveglio potentissime. Sono strumenti che ci permettono di capire dove siamo, Chi siamo e magari anche cosa è l’Altro e Cosa siamo noi; è cura.
Vogliamo lasciarvi con un altro immenso passo di Kundera, che in maniera suggestiva fa schiudere il fiore della felicità dal seme della noia 🌱
Perché è scomparso il piacere della lentezza? Dove mai sono finiti i perdigiorno di un tempo? Dove sono quegli eroi sfaccendati delle canzoni popolari, quei vagabondi che vanno a zonzo da un mulino all’altro e dormono sotto le stelle? Sono scomparsi insieme ai sentieri tra i campi, insieme ai prati e alle radure, insieme alla natura? Un proverbio ceco definisce il loro placido ozio con una metafora: essi contemplano le finestre del buon Dio. Chi contempla le finestre del buon Dio non si annoia; è felice.
Conclusione
Il tempo Vissuto dovrà quindi riprendere il proprio spazio sul tempo lavorativo e meramente produttivo, perché la crescita personale delle singole persone dovrebbe poter avvenire negli ambienti della vita in cui si può riportare proprio al centro l’importanza degli spazi di respiro liberi, di riposo, di vuoto, senza funzionalità e obiettivi, bensì liberamente oziosi. Abbiamo perso la capacità di prenderci cura di questi tempi di crescita e di fioritura cruciali per la nostra vita, abbiamo smarrito la nozione di cura del tempo stesso. Ma possiamo riscoprirla.... Come? Vi proponiamo un gioco di parole sulla scia della lentezza e della “lente” al suo interno di cui abbiamo parlato poco fa: impariamo a Fare-Essere lenta-e-mente. In modo lento, in modo che la nostra mente possa davvero diventare la nostra lente.
Dunque sì, in difesa dell’ozio e in celebrazione della riappropriazione del nostro tempo prezioso. Che sia davvero libero e che sia per tutteae, nessunae esclusae; con la consapevolezza che si tratta di una responsabilità tanto collettiva quanto individuale e che ancora l’ozio e il riposo sono una risorsa ad accesso privilegiato.
Disertiamo insieme? ❤️🔥
Grazie di cuore per averci letto fin qui, a presto con i prossimi articoli ✨
Bibliografia e Sitografia:
Colamedici, A., Gancitano, M., Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell'incantesimo, Harper Collins Italia, 2023.
De Masi, D., Ozio Creativo, Bur Rizzoli, 2002.
Kundera, M., La Lentezza, Adelphi, 1995.
Rosa, H., Accelerazione e Alienazione, Piccola Biblioteca Einaudi, 2015.
Russell, B., Elogio dell’ozio, Longanesi, Milano, 2004.
Link: Capitalismo: il mostro che divora il tempo libero. Un articolo di S. Cegalin
Link: Il diritto alla lentezza, Paolo Pileri, TEDxCuneo - YouTube
Altri testi belli belli consigliati:
Fana, S., Tempo rubato. Sulle tracce di una rivoluzione possibile tra vita, lavoro e società
Mazzocco D., Cronofagia. Come il capitalismo depreda il nostro tempo, D Editore, 2019.